È del 4 gennaio la notizia che i principali trattamenti per le lesioni alla cuffia dei rotatori funzionano. È quanto emerge da uno studio pubblicato nel sito dell’Agency for Healthcare Research and Quality (Ahrq) del Dipartimento per la Salute degli USA. “Il trattamento chirurgico è un’opzione valida per molti pazienti – commenta Carolyn M. Clancy direttrice dell’agenzia americana. – Come per ogni altro tipo di chirurgia però, per effettuare la scelta migliore ciascun paziente dovrebbe confrontarsi con il proprio medico”.
A cura di Giovanni Cacia
L’affermazione della Clancy è la conseguenza di uno studio che conferma quanto medici e giornalisti italiani continuano a ripetere da sempre: le decisioni in merito al trattamento chirurgico o conservativo (non chirurgico) dovrebbe essere il risultato di una scelta condivisa tra paziente e medico. Il report prodotto dallo studio effettuato nell’ambito dell’Effective Health Care Program negli USA, pur lasciando un po’ delusi gli esperti per alcune ovvietà riportate, costituisce sicuramente un buon riferimento per il paziente anche se sarà destinato ad essere rivisto in funzione di auspicati e necessari nuovi studi di approfondimento.
Le lesioni della cuffia dei rotatori costituiscono una condizione importante dal punto di vista epidemiologico perché sono molto più comuni di quanto generalmente si creda. Nella maggior parte dei casi si tratta delle conseguenze di una degenerazione progressiva legata all’invecchiamento. Pur nella diversità delle percentuali riportate, è evidente che si tratta di un problema generale: quelle fornite dallo studio americano parlano del 54% di soggetti con lesione parziale o totale tra tutti coloro che hanno superato i 60 anni. Le rotture massive traumatiche della cuffia invece sono molto più rare.
Dolore e perdita di funzionalità e movimento sono affrontate con trattamenti conservativi o chirurgici. I primi hanno una durata variabile dalle sei settimane ai tre mesi e possono consistere nella somministrazione di medicinali antidolorifici, anche attraverso infiltrazioni (iniezioni locali), riposo, esercizi fisici passivi o attivi, trattamenti termici o applicazione di ultrasuoni. In caso di fallimento totale o parziale della terapia conservativa, medico e paziente possono affrontare insieme la decisione relativa all’intervento chirurgico, con diversi gradi di invasività e tecniche: chirurgia open, mini-open o artroscopia sono le più usate. Per la riabilitazione che ne segue, sono disponibili vari programmi che hanno lo scopo di ripristinare forza muscolare e range of motion.
QUELLO CHE IL PAZIENTE DOVREBBE SAPERE
Secondo lo studio di revisione condotto dai ricercatori dell’Ahrq, ciò che il paziente deve sapere prima di prendere qualsiasi decisione, può essere sintetizzato in:.
1) Tempistica dell’intervento chirurgico. I pazienti trattati immediatamente dopo il trauma mostrano una migliore ripresa di funzionalità.
2) Efficacia dell’intervento chirurgico e della riabilitazione post-operatoria. Gli studi esaminati non evidenziano differenze clinicamente importanti tra la chirurgia open e mini-open, ma quest’ultima comporta un più rapido ritorno alle attività lavorative e sportive. Analogamente non si riscontrano differenze significative tra la riparazione artroscopica e la mini-open tranne il fatto che la prima richiede tempi di ricovero decisamente più brevi e permette di iniziare la riabilitazione prima rispetto alla mini-open. Con uno schiaffo alla logica aristotelica, gli studiosi evidenziano invece risultati migliori della chirurgia open rispetto all’artroscopia: il grado di evidenza è però molto basso. C’è da sottolineare, però, che l’artroscopia è molto ‘operatore dipendente’ nel senso che la tecnica chirurgica richiede un periodo di apprendimento e alcuni medici preferiscono ricorrere a tecniche ‘classiche’. Anche la disputa tra sutura single-row e double-row non può essere risolta sulla base delle evidenze scientifiche esaminate. C’è invece un generale consenso sui sostanziali benefici che, qualunque sia l’approccio adottato, la chirurgia può offrire ai pazienti.
3) Riabilitazione post-operatoria. È ritenuta efficace, ma non è possibile trarre conclusioni in merito all’approccio migliore.
4) Complicazioni. Gli studi riportano un’ampia varietà di complicazioni, però fortunatamente sono in genere di lieve entità e la loro frequenza è molto bassa.
5) Fattori prognostici. I risultati dell’intervento sono influenzati dall’entità della lesione, dall’intensità dei sintomi pre-operatori e dall’età, mentre la durata dei sintomi e il sesso non hanno un impatto rilevabile.
Ci associamo ai commenti degli esperti: le conclusioni della revisione sono deboli, in ragione delle carenze metodologiche degli studi pubblicati e della scarsità di dati di buona qualità attualmente disponibili. Preoccupa in particolare la mancanza di evidenze in merito alla scelta cruciale tra una chirurgia tempestiva e un intervento rimandato dopo l’eventuale fallimento del trattamento conservativo. In ogni caso, ‘sposiamo’ il consiglio della dottoressa Clancy e di tutti i medici italiani: dopo essersi adeguatamente informati, è meglio affidarsi al consiglio del proprio medico di fiducia!
Con il contributo di Tabloid di Ortopedia
“L’Effective Health Care Program (Ehcp) apre un importante nuovo capitolo nella storia della medicina evidence-based”. È l’opinione di Carolyn M. Clancy, che spiega: “Il programma ha l’obiettivo di permettere ai medici e ai pazienti di mettere a confronto i diversi trattamenti disponibili per una data condizione medica critica e di conoscere quali hanno mostrato di essere i più efficaci”.
Avviato nel 2005, l’Ehcp si avvale essenzialmente dello strumento delle revisioni sistematiche degli studi comparsi in letteratura su un dato argomento. Il programma promuove e genera nuove evidenze scientifiche, anche evidenziando le lacune nelle attuali conoscenze e indirizzando le nuove ricerche. Una peculiarità dell’Ehcp è di porre una speciale enfasi nel tradurre i risultati ottenuti in una varietà di formati, adattando il linguaggio alle diverse figure interessate, pazienti inclusi.
© Orthopedika Journal